28 gennaio 2013

Si stava meglio quando si stava peggio?


Un altro dei miei articoli usciti nei primi mesi del 2011 sulla rivista Spirito Libero.

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Avete mai capito se ambasciator porta pena oppure no? Vi siete mai chiesti se l’importante è essere giovani dentro, o se le donne maturano prima degli uomini? Ma poi, i ricchi piangono? Tutte queste domande, e molte altre, ve le potreste tranquillamente porre, dato che ogni giorno si viene a contatto con una espressione di questo genere, che, come tutti sapete, si chiama luogo comune. Nessuno ne è al sicuro, sfortunatamente, e non si può far altro che farci il callo e sperare di non incappare in un aficionado che vi ricorre tanto spesso quanto noi ricorriamo allo spazzolino da denti. Sono spesso gli insospettabili che ne fanno uso: magari avvocati, professionisti affermati, che nel bel mezzo di una conversazione con i colleghi sfoderano il delizioso “Ma perché sai, nella vita non ti regala niente nessuno” o il temutissimo “Dai, dai, che la speranza è l’ultima a morire!”. E, tutte le volte che io sento una di queste espressioni, provo una sorta di pena per chi la pronuncia e un sentimento di umana comprensione e solidarietà per il collega che ascolta (a meno che poi non risponda con un altro luogo comune: in tal caso, la disfatta è totale e l’empatia è annullata). La mia riflessione è questa: è davvero così difficile ragionare prima di parlare e non dire una banalità? O almeno provarci! È scoraggiante, almeno per me, sentire che un discorso, che magari è condotto nella più sincera delle maniere, viene ridotto a uno scambio di frasi di circostanza, che spesso tagliano di netto la conversazione, più o meno come il vostro parrucchiere quando gli dite “giusto una spuntatina, mi raccomando”. Il vero problema dei luoghi comuni è il generalizzare. Da un caso, si pretende di stabilire una regola; e se c’è una cosa che l’esperienza insegna, è che in questo mondo le previsioni non sono possibili. Si può provare, tentare, di inscatolare la realtà, ma lei non è d’accordo: una scatola, una frase, le stanno troppo strette. Abbiamo talvolta bisogno di risposte facili, di vittorie a portata di mano o di una battuta pronta quando il tempo stringe; ma non è certo nelle frasi precostituite che le possiamo trovare. Vi lascio con una domanda: fu vera gloria? Ai posteri l’ardua sentenza. E anche un po’ di aranciata, ché aspettare fa venir sete.

13 gennaio 2013

Fenomenologia di Sandro Piccinini

Ormai da diversi anni a questa parte il mondo delle telecronache delle partite di calcio assiste al sorgere di una nuova generazione di commentatori, che gli ammiratori potrebbero definire "entusiasti" e che i detrattori sostengono invece essere semplici "esagitati". Lo stile telecronistico di questi giornalisti è caratterizzato da una costante enfasi narrativa volta a cercare di spettacolarizzare ogni singolo secondo della partita, anche il più piatto e tranquillo, in ossequio alla generale tendenza televisiva ad aumentare il rumore e diminuire il contenuto. Iniziatore, capostipite e massimo esempio di questa categoria è certamente Sandro Piccinini. In contrasto con cronisti più misurati come Bruno Pizzul o Stefano Bizzotto, Piccinini ha dichiarato una personale guerra al silenzio e allo stile: le sue armi, un vocabolario basilare e un'ugola portentosa. Chiave delle telecronache di Piccinini è la ripetizione di un numero limitatissimo d'espressioni: ogni frase è pronunciata con la stessa cadenza (tono in crescendo ed enfasi sull'ultima parola detta), la ricerca lessicale è nulla, la metafora è sempre impiegata nella più dozzinale delle versioni. Nel corso di una telecronaca della durata media di circa 100 minuti compresi recuperi e brevi intervalli, ascolterete decine e decine e decine di volte le stesse frasi, tanto che lo spazio-tempo intorno a voi arriverà a distorcersi, vi perderete come in un labirinto («ma non l'aveva già detto prima, al 15'? Ma quanto tempo è passato?»), dimenticherete ogni concetto di coerenza temporale e vi ritroverete al termine della partita con molti neuroni in meno e qualche dubbio: avete assistito a una partita di calcio o a un film surrealista? Non tentate di segnarvi il numero di volte in cui Piccini pronuncia i suoi vari (si fa per dire) "numero", "per lui", "zona tiro", "incredibile": perdereste sicuramente il conto a metà primo tempo, avendo esaurito tutti i foglietti preparati per l'occasione. Piccinini in questo è preciso come un orologio svizzero: a ogni tocco di palla che richieda un minimo d'abilità, urlerà «NUMERO!»; a ogni passaggio lungo, «SCIABOLATA!»; ogni volta che un giocatore arriverà a meno di 30 metri dalla porta, puntuale svuoterà i polmoni con «ZONA TIRO PER LUI!»; e ogni cosa insolita è ovviamente «INCREDIBILE!». Piccinini non riesce a evitare l'enfasi, è ormai connaturata in lui: se inquadrassero un giocatore che si allaccia le scarpe, strepiterebbe «NUMERO! LE FA COL DOPPIO NODO!». La ripetizione diviene ipnotica, le certezze vengono a poco a poco a mancare: cos'è davvero bello, se tutto è un «NUMERO!»? Le cronache di Piccinini hanno dato inizio a un diffuso e progressivo abbandono della serietà del commento in favore della vivacità a tutti i costi, aumentando enormemente il numero degli errori dei cronisti che, concentrati come sono a doversi sgolare, non possono certo fare attenzione alla pronuncia dei nomi, ai ruoli dei giocatori, alle azioni in campo, agli aspetti tattici. Ci mancherebbe. Conta solo intrattenere, ma non con le immagini dello sport, il calcio, bensì con urli, espressioni stereotipate (ogni telecronista ha la sua, che lo identifica - purtroppo, non in questura, ma all'orecchio del telespettatore), commenti da bar. Piccinini ha veri e propri emuli (i colleghi Luca Gregorio ed Enrico De Santis, che tentano di replicare il disistile di Piccinini adottando addirittura il suo stesso vocabolario), semplici imitatori e urlatori come Fabio Caressa che, partendo dal "modello Piccinini", hanno sviluppato tutto un loro modo di (non) commentare, magari aggiungendo assurdi tentativi di picchi di lirismo (regolarmente falliti), toni pseudo-epicizzanti e una generale rinuncia alla professionalità. La situazione, almeno per ora, non pare tendente al miglioramento.

7 gennaio 2013

Parole mal tradotte: education


Education

La parola mal tradotta di oggi è "education", un altro "falso amico". Parola d'uso abbastanza frequente in inglese quando l'argomento è la scuola. Quante volte, in un film o in un'opera scritta originariamente in inglese e poi tradotta in italiano, avete sentito frasi come "ha avuto un'educazione molto costosa" o "il sistema educativo" o "il ministro dell'educazione"? Ovviamente non si parlava di buone maniere a tavola o di grazie, prego e buonasera, ma di percorsi di studi: la parola "education" significa "istruzione", non "educazione". Andiamo ad analizzare più nel dettaglio.


Definizione di "education" (dal dizionario di A.S. Hornby):

1 - formazione sistematica e istruzione (specialmente nei giovani, a scuola, al college, ecc.).

2 - la conoscenza e le abilità e lo sviluppo del carattere e delle capacità mentali risultanti da tale formazione.

Vediamo adesso le definizioni in italiano, prima quella del traducente sbagliato, poi di quello corretto:

Definizione di "educazione" (dal Devoto-Oli 1971):

1 - metodico conferimento o apprendimento di principi intellettuali e morali, validi a determinati fini, in accordo con le esigenze dell'individuo e della società.

2 - criterio che guida a comportarsi civilmente e cortesemente nei contatti col prossimo [...].

Definizione di "istruzione":

1 - il conferimento o l'acquisizione dei dati relativi a una preparazione tecnica o culturale, mediante un insegnamento per lo più organico (in particolare la preparazione tecnica e culturale dei giovani, che si compie in modo sistematico nella scuola).

Appare dunque evidente che la definizione di "istruzione" coincide, quasi perfettamente, con quella di "education"; ed è pertanto sbagliato tradurre la parola inglese "education" con l'italiana "educazione".

3 gennaio 2013

Un conflitto eterno. Completamente inventato.


Pubblico in questo post un mio vecchio articolo, uscito a inizio 2011 sulla rivista Spirito Libero (allora cartacea, ora si trova all'indirizzo http://www.spiritoliberomag.it/). A posteriori, il titolo non mi pare dei più felici, ma tant'è. Riporto anche quello.

La questione di oggi invade ogni spazio della vita quotidiana e della comunicazione di massa: il conflitto tra i sessi. Si tratta di un problema che, se affrontato con (facile) ironia, riscuote grandi successi,  e sono citabili come esempi lampanti l’umorismo dei comici (sic!) Geppi Cucciari e Dario Cassini o il film di recente uscita Uomini contro donne, e che invece, portato in ambienti professionali e in contesti sociali, suscita grandi dibattiti, che sovente sfociano nel più insipido dei muro contro muro. La questione si regge su un immenso equivoco di fondo che mi pare tanto banale quanto quintessenziale sottolineare: la sola distinzione tra uomini e donne è obsoleta, se non un retaggio preistorico. Una differenza che poteva valere quando nei cieli spiccavano brevi voli dei placidi Archaeopteryx. Nel farlo adesso si commette un errore macroscopico, e cioè si passa sopra alla sussistente parità tra gli esseri umani, alla loro uguaglianza. Se si continuano a concepire uomini e donne come esponenti del proprio sesso anziché dell’umanità come insieme di menti, sarà inevitabile cadere nei più triti luoghi comuni e nelle discriminazioni, e basti pensare al trattamento che ricevono le donne in vari campi del lavoro, così come all’immagine che gli uomini devono mantenere per non essere definiti “effeminati” (insulto grave quant’altri mai, per chi è cresciuto con il mito del playboy seriale e all’ombra della figura del patriarca infallibile, e in definitiva per chi ha una imponente mole di insicurezze legate alla concezione di sé in funzione degli altri). Sono spesso portato a concludere, quando mi trovo davanti a discorsi del genere, per capirci “voi donne/uomini siete tutte/i uguali!”, ed è importante l’intercambiabilità dei termini per definire la vacuità dell’affermazione, che chi li fa pensi con una coscienza protoscimmiesca, un intelletto perso tra le felci pre-glaciazione (di cui però c’è da dire che farebbero la loro figura in salotto). È davvero così difficile smettere di essere schiavi della propria immagine esteriore, di essere così asserviti a considerare l’altro sesso “inferiore”, di avere una concezione dell’altro quale semplice rappresentazione di un genere? Probabilmente sì, per chi è stato educato fin da piccolo alla competitività, all’affermazione di sé sugli altri (affermazione coercitiva, s’intende). È certo più facile dire “ma sì, gli uomini sono tutti pansessuali” o “ma sì, le donne sono tutte mignotte” che fermarsi a considerare la complessità della mente, la profondità dei pensieri, le diversità tra i singoli individui. Generalizzo, e il gioco è fatto: via tutto, tabula rasa. Pensieri? Cosa sono? Coscienza? Quale? Sensibilità? Ma la possiede qualcun altro oltre a me? Una terrible simplification che annulla l’essenza stessa dell’essere umano, la comprensione dell’altro, la consapevolezza che non siamo egolatricamente chiusi in noi stessi ma che chi abbiamo intorno è complesso almeno quanto noi, se non di più. E allora basta, basta barriere, basta ostacoli, basta grettezze dispettose e malignità maliziose, non siamo uomini e donne ma esemplari di homo sapiens sapiens, abbiamo la capacità per andare oltre ai pregiudizi, ai sospetti, alle discriminazioni, alla stolidità. Se lo vogliamo.